The King

Film su Netflix che romanza (molto) la vita di re Enrico V d’Inghilterra, quello della battaglia di Azincourt.

Enrico è ritratto prima come principe ribelle, sregolato, scontroso e taciturno, auto-allontanatosi dalla corte per condurre una vita sregolata, roso dai conflitti interiori, ma saggio, tenace, desideroso di pace e dal cuore saldo (in realtà storicamente fu tutt’altro che pacifista ma il film si inventa molte cose). Il giovane Enrico, soprannominato Hal, riesce a vedere prima di tutti la rovina dietro le politiche del padre, e l’avventatezza nel desiderio di mettersi in mostra del fratello minore. Cerca di fare la cosa giusta, ma è in una posizione impotente.

Una volta divenuto re, avendo l’occasione di poter cambiare le cose, lascia da parte la sua vita precedente e decide di maturare; ma la maturazione, la crescita, non giungono dopo singoli eventi importanti (come un’incoronazione e la presa di coscienza sul proprio ruolo), bensì attraverso un lungo percorso ad ostacoli che non tardano a manifestarsi. Enrico si mostra in costante conflitto fra la determinazione e l’insicurezza, fra la volontà di perseguire un obiettivo lontano e l’indecisione su come raggiungerlo, fra la consapevolezza di potersi fidare di pochi e la vulnerabilità dettata dall’inesperienza politica. La sua purezza di ideali lo rende bersaglio di intrighi, tramutandosi in una medaglia a due facce: il bisogno di avere fiducia in qualcuno, la necessità della fedeltà dagli altri, gli porteranno sia successi che sconfitte, e metteranno in luce i suoi punti più vulnerabili, i limiti della sua saggezza e la sua volubilità. Le prospettive da re sono molto differenti.

Il clero è dipinto come viziato, arrogante, incompetente e parassitico.

I francesi sono rappresentati come infidi, crudeli e incompetenti, o meglio, in particolare è dipinto così il delfino di Francia (che nella realtà era tutt’altro che spavaldo e bellicoso come mostrato nel film, e nemmeno partecipò alla battaglia, ma vale quanto detto prima). Nel finale però si capiscono le motivazioni dietro al loro atteggiamento sprezzante con un colpo di scena.

Doppiaggio ottimo, personaggi molto carismatici, scenografie semplici ma efficaci. La battaglia di Azincourt è rappresentata in modo più breve di quanto si potrebbe pensare, ma è solo uno strumento per mostrare la crescita di Enrico e non lo scopo della pellicola (e anche per questo, lo avrete capito, contiene imprecisioni storiche).

Dal punto di vista della fedeltà alla storia, come avrete capito, c’è molto poco di esatto durante le oltre 2 ore di The King. A parte questo, come narrativa guardatelo.

Voto: 7.5 se vi interessa una fiction di intrighi e crescita interiore, 5 se ci tenete alla veridicità e al dramma storico.

Oxygène [no spoiler]

Film di produzione francese uscito il 12 maggio e disponibile su Netflix.

La sinossi da Wikipedia e dal trailer:

Nel futuro una giovane donna si risveglia all’interno di una capsula criogenica, ma a causa dell’amnesia non ricorda chi è né il motivo per cui si trovi lì. La situazione peggiora quando l’ossigeno inizia a esaurirsi, e la protagonista per non morire dovrà cercare di scavare nella sua memoria e contemporaneamente cercare una via di fuga.

Non leggete il resto della voce su Wikipedia perché spoilera tutto.

Potete già immaginare che i tempi menzionati su schermo non corrispondono a quelli che passano effettivamente, con numerosi “mancano tot minuti” che poi si protraggono per molto più tempo, e la percentuale di ossigeno che sembra diminuire più velocemente nelle fasi più calme per suscitare suspense e più lentamente in quelle più concitate perché altrimenti ci si perderebbe il dramma. Di solito non mi piace quando succede ma capisco le esigenze sceniche.

Il film si concentra sulle emozioni della protagonista, alle prese con l’ansia, la paura e la disperazione, ma anche i ricordi confusi della sua vita, tra momenti felici che non riesce a focalizzare e misteriose scene traumatiche ignote. Non è solo la situazione in cui si ritrova a provarla sul piano emotivo, ma anche le rivelazioni che man mano lei apprende, e la necessità per lei di trovare soluzioni. Gli affetti personali, i ricordi, sono cose importanti che assumiamo come definenti la nostra identità e per cui agiamo e ci sproniamo.

Ci sono tre grossi colpi di scena. I primi due onestamente me li sono immaginati fin dall’inizio, per quanto sono prevedibili, anche se li ho immaginati come due alternative separate e non combinati. Il terzo invece mi ha sorpreso. Ed è proprio quanto accade dal terzo colpo di scena in poi che ha destato il mio interesse, che fino a quel momento era poco stuzzicato, anche perché i dialoghi iniziali non sono il massimo e l’interazione con l’IA della capsula è poco credibile. Il discorso di prima sulla nostra identità a seguito del terzo colpo di scena assume nuove chiavi di lettura e vuole stimolare una riflessione interiore fantascientifica.

È un film molto pessimista nelle premesse che vengono svelate, e per tutta la sua durata mantiene un filo di tensione per l’incertezza fra una risoluzione negativa della storia, un lieto fine, o una combinazione dolceamara dei due. Quale avverrà dei possibili finali, sottilmente suggeriti in un’alternanza di passi avanti e indietro per la protagonista, lo si saprà solo all’ultimo momento. Fra i ricordi confusi della protagonista che man mano si accumulano vengono suggerite sia la natura della situazione che lo scopo di tutto quanto, chiariti in maniera abbastanza elegante.

Ci sono alcuni riferimenti a problematiche che abbiamo vissuto nella vita reale, ma non credo ci sia una morale specificatamente legata a queste, che sono solo servite come spunto per giustificare lo scenario di sfondo in cui avviene la storia. Ritengo però che fra le righe ci sia anche un messaggio su come l’uomo dipenda e sia soggetto alla natura, sia nel bene (per esempio traendone ispirazione) che nel male (non potendo porre rimedio a certe situazioni per le quali bisogna arrangiarsi e cercare di adattarsi, come ciò che ha causato tutto quanto prima che la storia abbia inizio, e le limitazioni che vengono paventate per il futuro dopo che la storia sarà finita).

Tutto sommato Oxygène non è imperdibile ma si lascia guardare. Il finale mi ha un po’ colpito ma non mi rimarrà impresso. Mi è sembrato, per toni e resa, paragonabile alle ultime stagioni di Black Mirror, che hanno alti e bassi.

P.S. Se lo avete già visto, ecco in rot13 i colpi di scena a cui mi riferisco:

1) Ryvmnorgu aba chò ncever yn pncfhyn crepué yrv va ernygà fgn ivnttvnaqb aryyb fcnmvb ncregb. Zr yb fbab vzzntvangb qn dhnfv fhovgb.
2) Yrv fv gebin aryyn fvghnmvbar va phv fv gebin qv fhn ibybagà. Un cvnavsvpngb yrv vy cebtrggb.
3) Yn cebgntbavfgn è ha pybar qryyn iren Ryvmnorgu va phv fbab fgngv vzcvnagngv v fhbv evpbeqv.

[no spoiler] Agents of Shield stagione 7 + tirando le somme

Avevo già parlato delle altre stagioni qua. Ora finalmente ho recuperato l’ultima stagione.

In breve:

  • Diciamo che ha abbastanza fan service, e il primo è il colpo di scena che si vede alla fine della stagione 6. Io capisco la motivazione dietro a questa scelta ma trovo che tolga significato al personaggio e a tutto ciò che ha passato. Le sue scelte, le sue azioni, la sua sorte diventano meno significative per via di questo colpo di scena.
  • Il nuovo personaggio introdotto nel corso della stagione ha davvero molto potenziale ed è una scelta interessante. Peccato però che non venga sfruttato a dovere e faccia poco in fin dei conti. Non ha lo spazio che avrebbe meritato.
  • La prima metà della stagione indugia in qualche divertissement con le citazioni al cinema delle varie epoche, ma… ma… devo dire che l’episodio 7 è il punto più basso mai raggiunto dalla saga, davvero squallido.
  • Troppi personaggi secondari superflui che timbrano il cartellino.
  • I cattivi non mi sono piaciuti granché, li trovo i meno caratterizzati. Lui è insipido ma diventa quel che diventa in maniera forzata, quasi per effetto worf. Lei fa ben poco e tutto sbagliato.
  • Il plot device fantascientifico che traina la serie è un tipo di espediente che notoriamente incasina le trame, genera incongruenze e contraddizioni. Ritengo che il modo in cui Agents of Shield l’abbia gestito sia anche uno dei meno efficaci tra tutte le serie che l’hanno adoperato. Raramente gradisco opere fantascientifiche che trattano questo argomento.
  • A un certo punto un personaggio di natura non esattamente umana fa riferimento all’arco del framework verso la fine della stagione 4, dicendo che lì si sono incontrate versioni positive di alcuni personaggi negativi, umanizzandoli. Lo stesso personaggio poi farà di nuovo riferimento, ma in maniera negativa, contrapponendo chi viveva nel framework alle persone reali (e senza rendersene conto creando anche una contrapposizione con il colpo di scena citato nel primo punto). Mah, mi è sembrato contraddittorio e cherrypickato a convenienza.
  • La fine mi è sembrata frettolosa e dolceamara in una maniera che sembrava dire “la vita continua lo stesso e i personaggi vanno e vengono”.

Ok, non è stata una stagione memorabile per me. Non mi ha appassionato come le altre. Ma che dire della serie in generale?

Se non avete voglia di leggere il “riassunto” linkato all’inizio, dico che mi sono affezionato davvero tanto ad Agents of Shield e ai suoi personaggi, e questo nonostante abbia recuperato tutto quest’anno invece di seguire fin dall’inizio dal 2013. Mi è dispiaciuto per ciascuno di loro che se ne è andato nel corso degli anni per un motivo o per l’altro. Molti episodi mi hanno addirittura coinvolto anche più del MCU. Già, i film degli Avengers… il problema grave, l’opportunità sprecata, è stata quella per cui non si è riusciti a fondere tutto in un franchise unico. Ma già dalla fine della seconda stagione Agents of Shield inizia a procedere per conto proprio, e dopo gli ultimi riferimenti ai film nella terza, si slega del tutto dal MCU, che d’altro canto non fa mai menzione di quel che accade in AoS (amaramente). Tutto ciò ha spesso sfidato la sospensione dell’incredulità: perché non interviene almeno un Avengers in questa crisi o contro quel nemico? Ormai la minaccia è tanto grande, no? Ma capisco che avrebbe richiesto molto più budget far comparire un Avenger piuttosto che Lady Sif, e che ci sarebbero volute molte autorizzazioni dai piani alti di Marvel e Disney, che dal canto loro hanno sembrato ignorare del tutto ciò che avveniva nella squadra di Coulson e soci. Una grande opportunità sprecata.

In sintesi: Agents of Shield per me è stato divertente, appassionante e commovente. Le stagioni migliori per me sono la seconda e la terza, poi personalmente penso che perda progressivamente colpi e l’ultima stagione sembra davvero affrettata e fatta tanto per creare un bandolo intricato da tagliare in due come il nodo gordiano. Ma era doveroso concludere, anche se rimango convinto che il finale più adatto (e meno incongruente con la Infinity War) sarebbe stato da porre al termine della quinta stagione.

Su traduzioni letterali e adattamenti fuorvianti

Breve pausa su adattamenti e traduzioni, visto il polverone mediatico sollevato

Come prima cosa farò un esempio sul perché tradurre tutto letteralmente può, a volte, involontariamente tradire un vantato spirito di fedeltà o aderenza all’originale. Nell’esempio proposto, quando ci sono battute e giochi di parole che si perdono nella traduzione. Dopodiché farò un altro esempio di come, invece, adattare al nostro contesto può risultare nella stessa cosa, cioè la perdita del senso di una scena. In teoria il compito dell’adattatore è di mediare tra le due esigenze, valutando caso per caso e contestualizzando.

In questa scena comica di Full Metal Panic? Fumoffu c’è Tessa che dice “sono un marinaio, lavoro nel Mitsushobai, cioè… nel campo dell’acqua!”
Kaname imbarazzata replica “non dire altro…” mentre partono i classici goccioloni d’imbarazzo.
Dovrebbe essere una gag, ma non si capisce bene cosa ci sia da imbarazzarsi. 

 

All’epoca (2005 su Mtv Italia) pensai che la scena vertesse sul fatto che Tessa stesse per tradire la sua identità (in realtà è la comandante di un sottomarino segretissimo che si è presa due settimane di ferie da passare in un liceo) e questo dovesse far ridere perché lei era anche un po’ imbranatella nella vita scolastica.
In realtà in Giappone “lavorare nel campo dell’acqua” è anche un eufemismo per dire di essere una prostituta. In questo caso, la traduzione letterale impedisce di cogliere la battuta, basata su di un doppio senso, perché si fa riferimento a un modo di dire che non esiste in italiano. Un adattamento (che non vuol dire invenzione) equivalente sarebbe potuto essere “il mio mestiere è bagnarmi”. Le parole non sarebbero le stesse, il riferimento culturale preciso non sarebbe mantenuto, ma il senso della scena verrebbe preservato.

Ora invece farò un esempio opposto.

In francese si usa “fac” come abbreviazione per la facoltà universitaria. In Italia non è d’uso fac (mi dicono però che a veterinaria si utilizza), però diciamo comunemente uni, che è pressoché equivalente.
“Je vais à la fac” vuol dire “vado in facoltà”, oppure ancora “vado in uni” se vogliamo mantenere il carattere dell’abbreviazione, gergale, giovanile. Tuttavia non è detto che tradurlo in questo modo sia sempre necessario.
In un film che vidi quando ero a Marsiglia, l’Aubarge Espagnole, i parenti di un ragazzo inglese telefonavano al dormitorio dove lui alloggiava e si sentivano rispondere da una studentessa, che l’inglese non lo parlava bene, qualcosa tipo “he is not here he is going to fac”, per dire che era uscito per recarsi in università. Solo che alle orecchie degli anglofoni suonava “he is going to fuck”, da cui la reazione comica conseguente per via del doppio senso.

Se per ipotesi traducessimo questo film in italiano, e cambiassimo ogni “fac” con “uni” o “facoltà”, si perderebbe la caratterizzazione in cui nel contesto si usa frequentemente “fac”; la scena al telefono in cui la ragazza dice in un inglese stentato “he is going to fac” sarebbe meno ovvia agli ascoltatori, che sentirebbero per la prima volta il termine. Il rischio è di perdere la gag, basata su di una peculiare espressione dei francesi. Fortunatamente, data la similitudine di vocabolario, possiamo permetterci di lasciare fac in tutti i dialoghi e sarebbe comunque perfettamente comprensibile a noi italiani, preservando così la gag nel momento in cui giungerà e anche il tratto caratteristico della cultura di provenienza dei personaggi. Mi chiedo però cosa accadrebbe in altre lingue dove il termine per la facoltà è completamente diverso, probabilmente bisognerebbe riformulare tutta la frase.

P.S.

Ovviamente non sto parlando del caso, deplorevole, in cui si cambiano se non tagliano del tutto riferimenti in maniera insensata, come è accaduto per la traduzione italiana di A Song of Ice and Fire.

 

Best of 2018

Forse sono qualche giorno in ritardo ma non credo cambi molto.

Per fare prima, qui c’è l’elenco dei dischi che più mi sono piaciuti tra quelli usciti nell’anno appena passato: https://rateyourmusic.com/list/Connacht/best-of-2018/

Sono tutti in ordine alfabetico soltanto. Sicuramente col passare del tempo, inoltre, aggiungerò o rimuoverò qualcosa, man mano che scopro cose nuove che fino a questo momento mi ero perso. Ma per adesso qui c’è una buona selezione di ciò che più mi ha convinto.

In particolare, se dovessi consigliare…

  1. Qualcosa di rock: senza dubbio Plastic Hamburgers di Fantastic Negrito, per chi ama il blues rock arricchito da spunti soul e funk. Menzione speciale per i Fu Manchu perché il loro brano Il Mostro Atomico è fra i miei pezzi preferiti del 2018 (che ho elencato su Spotify qui).
  2. Qualcosa di metal: sul lato del “poca innovazione ma contenuti di qualità” segnalo gli High on Fire con Electric Messiah e i Black Tusk con T.C.B.T., all’insegna dello sludge metal più selvaggio e frenetico. Per chi volesse qualcosa di più originale, gli Zeal & Ardor con Stranger Fruit propongono un avant-black metal arricchito da influenze gospel, spiritual e country-blues. Ancora più curioso considerando che vengono dalla Svizzera e non certo dal midwest americano.
  3. Qualcosa di jazz: ho apprezzato in particolare Nyeusi di Justin Brown e The Optimist di Ryan Porter. Menzione speciale per Logan Richardson che ha pubblicato Blues People, da cui ho tratto il suggestivo brano Hidden Figures per la mia selezione di brani preferiti (che ho messo su Spotify qui).
  4. Qualcosa di elettronico: Carpenter Brut per chi volesse cose più tamarre ma sempre con una certa classe, Solar Fields per chi ha voglia di psybient malinconica ed emozionale, HØRD per chi volesse qualcosa di più oscuro e psicologicamente teso.
  5. Qualcosa di popolare/tribale/etnico/world music: con i Dead Can Dance sono assolutamente di parte, ma ho trovato le atmosfere di Dionysus affascinanti e avvolgenti.
  6. Qualcosa di italiano: ho ascoltato molto poco, ma Magip del GP Project, che rientra nella sezione jazz, è nella mia lista dei preferiti dell’anno.

Delusioni: Catharsis dei Machine Head, da cui mi aspettavo sinceramente molto di più e che ho trovato molto scialbo, e probabilmente anche gli At the Gates, che mi sono sembrati un po’ spenti e inclini a ricalcare schematicamente ma senza altrettanta passione e genuinità una formula del passato (ma da loro in fondo me lo aspettavo quindi non so quanto si possa parlare di “delusione”).

Per i libri, non ho letto niente di narrativa, ma solo qualche piccolo testo divulgativo per farne delle recensioni e nulla più.

Per le serie TV, non ho visto nulla del 2018.

Per quanto riguarda i cartoni animati giapponesi (…), grazie a MyAnimeList e all’app esterna Graph Anime Plus posso verificare (e comodamente copiaincollare) che ho visto le seguenti serie uscite nel 2018:

Da specificare che ho iniziato a usare in maniera massiccia Netflix, Crunchyroll e VVVVID (tutti legali) per aumentare la quantità di serie e film in generali visti quando ho un po’ di tempo libero.

Tra le delusioni metto senza dubbio Violet Evergarden, iniziato in maniera molto promettente e con il pedigree grafico della KyoAni, ma che si è rivelato poi inconcludente e poco approfondito, principalmente a causa (da quel che ho letto) del fatto che si sono alternati differenti direttori alla produzione che si sono incasinati fra di loro nel trasporre le light novel originali e nell’includere materiale inedito poco ispirato (ma mi dicono che anche il materiale di partenza fosse discontinuo come qualità). Aggiungo anche Full Metal Panic! Invisible Victory, che attendevo dopo più di dieci anni dall’ultima serie, ma che soffre di un’eccessiva compressione narrativa nell’arco dei 12 episodi (troppo affrettati) e di animazioni migliorabili.

Note:

  1. Mi sono scaricato i fansub di Asobi Asobase, altra serie del 2018, che però non ho fatto in tempo a vedere e prima o poi recupererò assieme ad altre cose disponibili sui siti di streaming e simulcast;
  2. Sora yori mo Tooi Basho è A Place Further Than the Universe (dovrebbe essere Farther…) che mi ha emozionato moltissimo soprattutto nella parte finale. Forse dargli 9 è esagerato e fra qualche tempo potrei abbassarlo a 8, ma sul momento non mi sono sentito di dargli meno. Prendete tanti fazzoletti per le puntate finali. Stesso discorso con High Score Girl, ma qui i fazzoletti prendeteli già da alcune delle prime puntate (a meno che detestiate i candidi amori tra bambini). Il primo è su Crunchyroll, il secondo su Netflix. Sono indeciso se mettere 9 pure a Bunny Girl. Se vi sembra che forse sto abbondando con i voti alti, ho deciso di decomprimerli nella mia lista e usare di più tutto il range da 1 a 10.
  3. Menzione speciale per Grand Blue, che mi ha fatto ridere tantissimo e mi ha spinto a leggere il manga iniziato già alcuni anni fa, il qual riesce a essere addirittura anche più divertente e demenziale. Non ridevo così tanto dai tempi di Fumoffu, è già tra le mie letture preferite.
  4. Non solo a High School DxD Hero ho messo 4, ma vi avviso che in certi momenti ho provato imbarazzo. È una di quelle cose definibili come “cringe” dagli anglofoni, oltre che piena di trovate blande che vogliono impressionare con pochissimo sforzo i tredicenni appena entrati in pubertà (o gli adulti con una mentalità rimasta ferma ai tredici anni).
  5. Non so davvero che voto mettere a Pop Team Epic. Comprendo che è pesantemente citazionista e nonsense, ma la maggior parte delle citazioni a me sono oscure, e quindi gran parte della serie non mi ha affatto fatto ridere. Quasi tutta la serie l’ho visionata più d’inerzia che con coinvolgimento. Quelle poche cose che ho riconosciuto, però, mi sono sembrate molto simpatiche (in particolare i riferimenti a Skyrim).
  6. Per un commento più approfondito su Hataraku Saibou, o meglio Cells at Work, che per molti è un “Esplorando il corpo umano” giapponese, rimando a qui.

Alien: Covenant

Avvertenza spoiler.

Risultati immagini per alien covenant

Se c’è una cosa che rendeva affascinante l’originale Alien più di tutto, era il senso di mistero attorno allo xenomorfo: qualcosa di insondabile, di inquietante, una creatura del buio quanto più lontana dall’umanità e che al tempo stesso ci ricorda ciò che, dentro noi stessi, riflette la sua natura. Alieno, per l’appunto.

Dopo quattro film, innumerevoli videogiochi, fumetti e libri, due spin-off crossover e un prequel, ormai dello xenomorfo si conoscono persino il codice fiscale e il PIN del cellulare. Rimane solo da usarlo come attaccabrighe in qualche cosa senza pretese che non siano il menarsi a vicenda, tipo Alien vs Predator. Ha senso continuare ad aggiungere dettagli sulle sue origini, sulla sua natura, togliendogli proprio quell’alone di incognito che ne aveva caratterizzato l’identità? Ha senso rendere sempre meno alieno l’alieno per antonomasia?

Già per questa premessa Alien: Covenant parte male. Eppure voler esplicitare che fosse opera di bioingegneria, come sospettato per decenni e praticamente rivelato in Prometheus, alla fine di per sé non è una cosa malvagia (anche perché è l’unica strada possibile per motivare l’esistenza di una creatura tanto in disequilibrio con l’ambiente che la circonda, in natura un animale del genere estinguerebbe tutte le prede e gli ospiti per la riproduzione condannando sé stessa, è un’arma). E potrebbe, volendo, riallacciarsi al discorso di timore verso le biotecnologie, già accennato in Alien: Resurrection che però alla fine si tramutava in una scusa per vedere un po’ di azione, tensione e spargimento di sangue acido.

Ma mettere tutta l’origine dello xenomorfo nelle mani di David appare il salto più lungo della gamba. Un colpo di scena (telefonato) che appare forzato, poco credibile, lascia buchi aperti nella trama, toglie spessore allo xenomorfo e fa sembrare tutta la vicenda sboronica (come già tutta la sostanza nera che si trasforma in moscerini o in enormi meduse o altro ancora in pochi minuti, e che era fra i lati peggiori già di Prometheus).

Nonostante ciò, l’interpretazione di Michael Fassbender sia come David 8 che come Walter è molto buona e il suo personaggio è il meglio caratterizzato di tutti. A non andar bene è il contesto.

L’equipaggio della Covenant richiama alla mente i colletti blu della Nostromo, solo in versione pionieri coloniali piuttosto che operai trasportatori. Ma i personaggi sembrano tutte macchiette che timbrano il cartellino, messi lì tanto per dire “visto? sono gente comune come voi, come nel primo film!”. Daniels cerca di sembrare la Ripley della situazione, ma appare forzata e priva del medesimo carisma; si differenzia perché più che rispettare i protocolli, la sua diffidenza verso il pianeta di origine del segnale è dovuta a istinto; e perché nel finale si trasforma in una super eroina, mentre Ripley riusciva in quel che riusciva nonostante la sua fragilità umana e anche questo rendeva grande il suo personaggio.

Tutta la parte dei protomorfi appare abbozzata, appena accennata, come se fosse solo un riempitivo di contorno al fulcro della storia che è David. In effetti, il film si chiama Alien, ma di Alien c’è ben poco e meramente in superficie, quando compare lo xenomorfo vero e proprio non porta con sé alcun significato. È una comparsa funzionale a spargere sangue e basta. Tutto il film è incentrato sui personaggi interpretati da Fassbender, veri protagonisti. A mio parere Ridley Scott, se voleva parlare del rapporto tra uomo e macchina, e andare di contrasti tra il tecnofilo e tecnofobico con il confronto/scontro tra David 8 e Walter, avrebbe fatto meglio a creare qualcosa di nuovo da 0.

Per il resto, sono carini i riferimenti velati a Blade Runner (il discorso del “più umano dell’umano”) e le citazioni alla pellicola originaria, il trailer era enormemente spoileroso, i personaggi come al solito non brillano per furbizia (perché i pionieri spaziali devono sempre toccare e sniffare tutto quel che trovano su un pianeta alieno?), alcuni dettagli horrorifici sono ben congegnati per suscitare raccapriccio e si capisce dove va a parare il film mezz’ora prima di ogni avvenimento.

“Il cyberpunk ha ucciso la fantascienza perché è troppo realistico”

Dal gruppo Facebook “fantascienza”:

Le uniche risposte possibili per ciascuno dei due le lascio al Maggiore:

P.S.

Ho scoperto oggi che il 30 maggio è stata pubblicata l’intera Trilogia dello Sprawl di William Gibson in un unico volume. La cosa gustosa è che dai rivenditori online costa solamente 12 €, ovvero si hanno Neuromancer, Count Zero e Mona Lisa Overdrive tutti assieme a praticamente 4 € l’uno. E meritano già al prezzo normale che hanno da separati.

Il nero pertugio

Ci sono diecimila motivi per cui si potrebbe criticare Interstellar: dai dialoghi semplicistici alla sceneggiatura a tratti forzata e illogica, passando per i comportamenti stupidi dei personaggi. E certo il riassunto “alternativo” su Bagniproeliator fa sganasciare dalle risate proprio perché mette in mostra sarcasticamente alcune pretenziositàdel copione.

Ma criticarlo perché in alcuni casi si concede qualche licenza artistica a fronte del rigore scientifico non ha senso. Non sono questi gli elementi che costituiscono il nocciolo di ciò che Nolan voleva realizzare, esprimere e comunicare con il film.

E’ irrilevante, e probabilmente non importava neanche a Nolan (che seduto ad un tavolo con Kip Thorne per trovare un compromesso fra plausibilità scientifica ed esigenze di comprensione/narrativa si è praticamente messo a dire “mboh vabbuò fai un po’ te però io voglio fare questa cosa comunque”), che la luce sui pianeti giunga da non si sa bene dove, o che forse non è così sicuro che in un buco nero supermassiccio rotante si possa evitare la marea gravitazionale e quindi la proverbiale spaghettificazione.

Ed è inutile lamentarsi del fatto che ci si immagini un tesseratto dentro al buco nero da cui comunicare tramite gravità con altre persone in altri periodi temporali. Altrimenti, dovremmo criticare Ritorno al Futuro perché, ammesso che il viaggio nel tempo esista, tralascia che il pianeta si sposta nello spazio col tempo; o criticare Star Trek perché non dovrebbe esserci la gravità terrestre a bordo dell’Enterprise. Ma vorrebbe dire non avere capito nulla né dei contenuti né del perché sono stati espressi.

Interstellar non è un documentario sulla fisica dei buchi neri, sulla relatività o sui whormholes.

E’ la storia dell’amore di un padre per la propria figlia.

Storia che può anche essere trita per alcuni, o al contrario strappalacrime per altri, per carità; ma non sono gli iceberg volanti o la relatività temporale inesatta sul primo pianeta il punto. Né questi ultimi sono funzionali a ciò che Nolan voleva esprimere.

Assassin’s Creed – Lineage

L’avevo visto in anteprima nazionale su Discovery Channel a novembre, ho scoperto solo ora che sul Tubo i tre corti di Assassin’s Creed: Lineage (prequel al videogioco Assassin’s Creed II e tranquillamente visionabile anche senza aver mai giocato alla saga, come per il sottoscritto) sono stati accorpati e messi online con continuità e in alta qualità.

Chiaramente come storia non aspettatevi qualcosa di particolarmente significativo e concludente, in fondo è nato per pubblicizzare il videogioco e magari far figo con i fanboy, non per rivoluzionare la storia del cinema; ma per poco più di 35 minuti in totale io uno sguardo ce lo darei. Graficamente eccellente, a volte un po’ troppo sborone nel protagonista che pare più un ninja con pettorali iperprestanti piuttosto che un assassino, merita una visione secondo me in virtù soprattutto della pregevole combinazione di riprese dal vivo su sfondo verde, computer graphic e rielaborazione digitale. La recitazione poi è ben congegnata, mentre i personaggi sono tutti accattivanti, le scene d’azione invece sono un po’ manieriste ma in fondo è prevedibile. Purtroppo non c’è molto spazio dedicato all’indagine o al brancolare nell’ombra, ma con poco più di dieci minuti per corto a disposizione non si può far granché e bisogna dedicarsi alle caratteristiche più salienti, fruibili dalla massa e che colpiscono.

Anzi, visto che l’anteprima su questo blog è piccola, vi consiglio piuttosto di vederlo direttamente su Youtube, dove lo schermo è molto più grande, dettagliato ed in formato televisivo.