Radiohead – The King of Limbs

Cosa è cambiato nei Radiohead con l’ultimo, improvviso album The King of Limbs?
Poco e molto, in realtà. Rispetto al suo predecessore c’è un certo discostamento dagli elementi più pop-rock in favore di un’accentuazione della matrice elettronica, permanendo a cavallo fra le due tendenze senza effettivamente permanere stabilmente in nessuna di esse.
Le composizioni si fanno più multisfaccettate ed “impressioniste”, ricordando in questo un po’ l’anima di Kid A (ma senza la stessa profondità psicologica e l’esistenzialismo che ne caratterizzava le atmosfere) e soprattutto il disco solista di Yorke, con riempimenti elettronici evocativi sui quali si adagiano giri melodici intensamente nostalgici, e lasciando pervadere le canzoni da una calma labile, sempre pronta a spezzarsi; o in alternativa partiture più acustiche e scanzonate ma tendenzialmente minimaliste.
Attitudine e umori sembrano comunque incrociare gli ultimi due album, toccando le composizioni dirette e cupe di Hail to the Thief.
Onestamente sembra mancare qualcosa nell’album: ignorando il fatto che c’è chi magari si aspetta da loro la rivoluzione ad ogni disco (ma col senno di poi si potrebbe dire in realtà che il loro “scopo” i Radiohead l’hanno già realizzato con Ok Computer e Kid A), per cui si potrebbe facilmente rimanere delusi dagli ultimi dischi in tal senso, la sensazione è che il disco levighi sì coordinate già consolidate, ma lasciando un velato retrogusto di manierismo con cui occultare il fatto che ci sia poca carne al fuoco ed un pizzico di monotonia. Spesso sembra quasi che le canzoni girino intorno solamente a qualche intreccio ritmico, con contrappunti di bassi a dire il vero gradevoli, sui quali trapiantare qualche timida e poco accennata melodia d’accompagnamento ai falsetti di Yorke.
Va comunque fatto notare anche che, forse come conseguenza di ciò, è l’album più breve della loro carriera, poco più di mezz’ora, il che lo rende relativamente assimilabile – ma purtroppo lasciando una sensazione di sconclusionatezza alla fine dei brani.
Rimane comunque un lavoro molto particolareggiato nelle atmosfere e soprattutto negli umori, sempre scandagliati con cura certosina dagli inglesi.

Che si tratti di un proverbiale lavoro di transizione (ammesso che questo termine ormai non indichi “album che non sono granché ma che non stronchiamo perché siamo ammiratori del gruppo”)? Può darsi, ma c’è anche la possibilità che questo TKOL sia un antipasto “minore” anche perché gli stessi Radiohead hanno già annunciato di essere al lavoro per un nuovo album la cui uscita dovrebbe non essere lontana e che potrebbe essere la vera pubblicazione. Vedremo.

Voto: 6

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